Al momento non ricordo quanti anni sono passati da quando, sul sito Eserèsi, ho scritto un breve testo a proposito di Alessandro Baricco. Direi che eravamo attorno all’anno 2000.
Ho criticato lui come ho criticato autori certo più meritevoli di lui: basta dire di come parlo di Gabriel García Márquez nel mio Viaggio letterario in America Latina. Ma un conto è scrivere ampiamente a proposito di García Márquez, mosso dalla delusione, perché mi sono sentito tradito da uno scrittore che avevo amato. Un conto è scrivere a proposito di Baricco, un autore che, appunto, secondo me, non si merita che un breve post su un blog.
In realtà non mi interessa ragionare su Baricco in sé. Mi interessa Baricco come caso esemplare di un certo tipo di autore.
Credo sia stato il mio testo pubblicato sulla Rete più letto. E anche quello che mi ha procurato più critiche e improperi. Ora, per una curiosa vicenda, che racconto qui, Eserèsi ha cambiato nome in Exerèsi, e quel post ha perso la posizione che aveva raggiunto sui motori di ricerca. Copio il testo qui di seguito.
Non perdete tempo a leggere le sue pagine vuote. Non sprecate denaro comprando i suoi libri, o le cassette che videoregistrano il Baricco narrante. Non visitate le troppo numerose pagine web a lui dedicate. E per carità tenetevi lontani dalla sua scuola di scrittura.
Baricco sta lì con i suoi ricciolini, intento ad ascoltarsi e a guardarsi al suo specchio. Per lui è più importante la scena televisiva della faticosa scrittura. Scrive, in realtà, per potersi presentare in televisione come scrittore, e non come semplice esibizionista, alla Carlo Massarini.
La sua reale vocazione è quella dell’affabulatore, del moderno narratore orale, ma un narratore che ha bisogno della luce dei riflettori e della mediazione mediatica. Raccontata per strada, o anche presentata dal vivo in un teatro, il gioco di prestigio della sua parola raccontata perde ogni attrattiva, si mostra in tutta la sua miseria di sforzo di volontà di un arrivista, di un contemporaneo Bel-Ami. Il romanzo di Maupassant si conclude quando Bel-Ami giunge al culmine del successo: si ferma lì, perché l’autore non è in grado di raccontare il discendere della china, e cioè il passaggio della mezza età, oltre la quale l’io adulto impara a convivere con l’idea della morte, o per dirla altrimenti quando l’autore si pone il problema del senso della sua opera come opera destinata a sopravvivere dopo la morte. Questo passaggio Maupassant non vuole raccontarlo, perché non può accettarlo: e infatti morirà a quarantatré anni, ricco e famoso, ma consumato dal troppo correre. Eppure Maupassant, scrivendo, riflette autobiograficamente attorno alla propria contraddizione – contraddizione tra successo e valore, tra effimero e opera destinata a durare – ed è per questo che le sue opere, attualissime, parlano ancora oggi a noi. Baricco ricciolino in jeans non è che un personaggio di Maupassant. Troppa fatica cercare di essere Maupassant. Maupassant viveva sulla scena pubblica. Ma, allevato alla scuola di Flaubert, sudava sulle sue pagine con severa disciplina. Baricco, profeta del facilmente bello, dell’apparentemente bello, si accontenta di essere un personaggio di Maupassant. E per evitare di riflettere sulla dura disciplina della scrittura, prima di avere effettivamente appreso a scrivere fonda una scuola di scrittura. Si insegna spesso per nascondere a noi stessi ciò che non abbiamo appreso.
E Baricco, in realtà, non ha mai appreso a scrivere. Per questo scrive poche parole, poche righe, sempre meno, con avarizia. Sta lì attaccato alle sue operine, pagine smilze eppure piene di spazi per sembrare più corpose.
Si dilunga solo in articoli giornalistici, là dove invece il rispetto del lettore richiederebbe esattezza e chiarezza, in una parola sintesi, là si dilunga – sempre narcisisticamente – a parlare di sé.
Sempre come se stesse misurando il denaro che ne ricava, quanto lire a battuta non sappiamo, ma sappiamo che uno scrittore così è uno scrittore che scrive per denaro
Baricco sa solo, con fatua leggerezza, narrare oralmente. Solo narrata oralmente la sua affabulazione acquista un qualche senso. Peccato che anche quando narra oralmente si scopra subito il violento contrasto – sì, violento, e non basta certo ad ammorbidirlo il tono vellutato della voce del nostro – il violento contrasto tra il momento racconta storie altrui ed il momento in cui ahimè passa a storie proprie, storie cresciute nella sua graziosa testolina riccioluta.